Con Manituana dei Wu Ming facciamo un salto davvero interessante, in una cultura che non è così facile incontrare in un libro italiano. Manituana è stato pubblicato da Einaudi nel 2007. Come gli altri titoli che ho letto dei Luther Blisset/Wu Ming, è bello corposo, con 613 pagine, ed è pubblicato in licenza creative commons. Fa parte del Trittico Atlantico, una trilogia di libri ambientati alla fine del XVIII secolo in luoghi sulle sponde dell’Atlantico. Per ora, è stato pubblicato solo il secondo libro, l’Armata dei Sonnambuli.
Una storia dalla parte sbagliata della storia
Manituana, come si dice nel booktrailer, racconta “una storia dalla parte sbagliata della storia”. Ci ritroviamo infatti nella cultura di uno dei popoli nativi dell’America settentrionale, i Mohawk. Alla fine del Settecento, il popolo della Lunga Casa prospera appena dopo i monti Appalachi. I Wu Ming ci mostrano che c’è speranza all’orizzonte, c’è il progresso che arriva da est, dall’Europa. C’è il legame sempre più stretto e consolidato tra i Mohawk e gli europei, sia con alleanze che famiglie miste, tanto che la tribù ha dato l’appellativo a quella terra di “Irochirlanda“.
Al mattino poteva sentire la terra respirare. A mezzogiorno, poteva sentire l’erba crescere. La sera, poteva vedere dove i venti andavano a riposare. Molte cose invisibili erano limpide per Molly Brant, chiare come una calligrafia, nitide come il profilo degli alberi in una giornata tersa. (p. 24)
Come succede anche in Q, i Wu Ming narrano di avvenimenti storici, in questo caso le guerre che portano alla proclamazione degli Stati Uniti d’America, dal punto di vista di personaggi realmente vissuti affiancati da altri romanzati. Sir William Johnson, Joseph (Thayendanega) e Molly Brandt hanno vissuto in questo periodo e hanno partecipato in prima persona agli eventi. Molly Brandt, in particolare, mi ha colpito molto perché aggiunge un tocco soprannaturale, ma perfettamente integrato, a un romanzo storico: per i Mohawk è una guida spirituale perché ha un collegamento privilegiato con la natura e la sua potenza. Gli occidentali, invece, la considerano una sorta di strega.
Le vicende di Manituana si svolgono sia nelle terre dei Mohawk, a sud del lago Ontario, ma anche nella Vecchia Europa. Nella seconda parte del libro, infatti, una piccola delegazione parte per Londra, per poter parlare con re Giorgio III riguardo la situazione sempre più instabile e consegnargli uno dei generali ribelli catturati, Ethan Allen: non solo i francesi sono una spina nel fianco, ma ci sono sempre più ribelli che mettono in pericolo i domini di sua maestà e la sopravvivenza Mohawk.
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Nella parte dedicata al soggiorno a Londra, gli autori danno spazio anche a una sottotrama tragicomica, con il club dei Mohock: un gruppo di malfattori che si travestono come pensano facciano gli indiani per commettere i loro crimini. Arriveranno anche a scrivere a Joseph Brandt, acclamato nella capitale dell’impero come un principe indiano, per diventare la settima nazione irochese.
Un finale già scritto
I Wu Ming fanno un lavoro splendido nel farti affezionare ai personaggi, facendoti dimenticare che tu lettore conosci già la loro fine. Quel quadro idilliaco iniziale, in cui Molly Brandt sentiva la Natura, comincia a stingersi per l’arrivo di allarmi che diventano sempre più pressanti, fino al giungere della guerra: il popolo Mohawk, come molti altri, è destinato a soccombere tra “la distruzione immediata” dei loro insediamenti da parte dei ribelli, come ordinerà di fare in una lettera lo stesso George Washington, e un alleato, il Regno Unito, che presto si disinteresserà della loro causa.
Ti ritrovi a sperare che alla fine la storia possa cambiare, che i figli di europei e popolazioni originarie dell’America possano continuare a tenere i loro territori e prosperare in mezzo alle tre sorelle, Mais, Zucca e Fagiolo. Ma questo non può succedere e gli autori infieriscono con tutta la crudeltà della guerra e della devastazione sui Mohawk. Troveranno un ultimo luogo di rifugio: le Mille Isole del lago Ontario, ribattezzate proprio Manituana, cioè il Giardino del Grande Spirito.
Corsero attraverso la piana e nel fitto degli alberi, incalzati dal crepuscolo e dalla sorte, un’armata di cinque uomini e molti fantasmi.
Corsero per salvare un pugno di anime dall’Apocalisse. Corsero, perché così era scritto. Ora che il tempo finiva, ogni cosa trovava compimento. (p. 579)
Penso anche che farmi interessare a una tematica a cui non avevo mai rivolto attenzione sia stato uno dei tanti pregi di questo libri. Tuttavia ammetto che avevo bisogno di Wikipedia per capire dove fossero certi luoghi o la situazione storica di partenza. Ho scoperto con molta sorpresa il sistema politico di queste popolazioni, tanto distante dai nostri occidentali quanto interessante. Un video su Youtube può farvi capire meglio come si amministrava il potere tra gli Haudenosaunee, gli Irochesi della Lunga Casa di cui anche i Mohawk facevano parte.
Prosa poetica e metalingua per il club Mohock
Il libro è scritto con una prosa spesso poetica che non stanca, mai scontata o fuori luogo per l’apocalisse di questa popolazione. Sembra l’unico modo efficace per descrivere il collegamento dei Mohawk con la loro terra. Uno stile molto meno ostico, più mediato di quello di Q e più simile a quello di Altai, il seguito di Q.
A sottolineare la differenza di tenore tra il filone principale e la sottotrama del club Mohock è anche il registro: qui i Wu Ming sfruttano una metalingua per dare voce a questi farabutti e narrare le loro malefatte. Sarà per questo, infatti, che tanto ricordano la gang di Arancia Meccanica di Anthony Burgess.
-A frugare bene, le ciuffe d’aquila, te le gagnavi, in qualche buco. Invece no, ci hai portato nel letame di Vauxhall per grattare due polli. Saranno pure americani, ma tanto peggio. Magari averci su quelle ciuffe vuol dire qualcosa, in selvaggio. Magari vuol dire «sono un coglione» e tu, per fare l’americano, vai dal principe dei Mohawk con «sono un coglione» stampato sulla biffa.
-Mi fotte quanto una morta fredda, il principe indiano. (p. 287)
Manituana: un progetto crossmediale con user generated content
Il mio approdo a Manituana però non è stato dei più immediati, non sono entrata in libreria e, colpita dalla quarta di copertina, ho comprato il libro. Non conosco la storia americana né mi attira molto, anche se dopo questo libro mi ha incuriosita molto.
La prima volta che ho sentito parlare di Manituana è stato in aula dell’università: era uno degli esempi di un prodotto crossmediale, cioè diffuso su più medium, e che dava la possibilità ai fruitori di ampliarlo. Questo tipo di sviluppo mi ha solleticata, ma non è nuovo per i Wu Ming/Luther Blissett, o comunque per il collettivo che c’è dietro questo pseudonimo che significa solo anonimo. Proprio la loro natura li ha spesso portati a collaborare anche per altri loro titoli, come Q, con altri artisti per poesie, canzoni disegni o altri progetti.
Anche per Manituana, infatti, hanno espanso il cuore della storia. Tutto questo è ancora visibile e fruibile nel sito dedicato. C’è anche una parte riservata, dedicata a chi ha letto il libro perché chiede una password che si trova al suo interno. Qui sotto, vi lascio un video di esempio: la Compagnia Fantasma e il suo spettacolo sul club Mohock, che raggruppa appunto le parti dedicati alla gang di criminali di Londra e aggiunge anche due nuovi scritti.
Uno dei tanti motivi per cui amo le storie di questo collettivo: la dichiarata volontà di condividerle con chi vuole farle proprie e ampliarle con ulteriore creatività.